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Vivere in una cultura che nega la sofferenza

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La nostra cultura condanna le persone che riconoscono ed esternano la loro sofferenza. Esalta piuttosto coloro che hanno superato le avversità e sono andati oltre.

Ripetutamente, vediamo vittime di catastrofi naturali come terremoti, frane, alluvioni o all’estero, tornadi, uragani, tsunami rispondere alla domanda “Come ti senti?” con un sorriso e dicendo qualcosa del tipo “Sono felice di essere sopravvissuto. Ricostruiremo” oppure “Sono solo cose materiali”.

Questo è quello che le persone vogliono sentirsi dire. Non vogliono sentire: “Sono devastato, ho perso tutto, non so se potrò andare avanti” che è quello che, invece, molte vittime in queste situazioni realmente sentono e pensano.

È diventato un tale luogo comune in situazioni difficili, dove comunque proviamo profonde emozioni negative, negare o minimizzare che diventa inaccettabile anche solo sentire qualcuno che in modo onesto ci parla della sua sofferenza. Pensiamo si debba tenere per sé, non è qualcosa da condividere.

Se come sopravvissuto sei circondato da persone che credono che dovresti semplicemente “andare oltre” quello che ti è successo, per favore riconosci che hai il diritto di sentire quello che senti e il diritto di fare qualsiasi cosa per aiutarti a guarire dal trauma, tra cui circondarti di persone che provino compassione per te e che ti insegnino in questo modo a rivolgere la stessa compassione amorevole verso te stesso. E senza per forza dover sfoggiare un sorriso di circostanza.

Come? Praticando la piccola meditazione per la gentilezza amorevole verso di te.

Riferimenti

  • Engel, B. (2015). It wasn’t your fault. Freeing Yourself from the Shame of Childhood Abuse with the Power of Self-Compassion. Oakland, CA: New Harbinger Publications
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