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Resilienti si nasce o si può diventare? Intervista con Paola Castelli

a cura di Paola Di Lazzaro

Resilienza è una parola che negli ultimi anni, affiorando dal suo ristretto ambito specialistico, sembra essere diventata di moda; anche una semplice ricerca su google trends (lo strumento che permette di analizzare i dati provenienti dalle ricerche fatte dagli utenti su Google) evidenzia come in due anni, dal 2014 in poi, e progressivamente di anno in anno, il concetto di resilienza sia diventato sempre più coinvolgente, sempre più usato, sempre più ricercato.

Ma che cosa è esattamente la resilienza? Perché alcune persone sembrano essere più resilienti rispetto ad altre? Si può imparare ad essere resilienti? Con queste ed altre domande ci siamo rivolti a Paola Castelli Gattinara, psicoterapeuta cognitivo comportamentale che lavora presso il Centro De Sanctis di Roma e, da anni, si occupa di disturbi dello spettro post traumatico.

 

Dottoressa, mi dà una definizione di resilienza?  E mi dice secondo lei perché è diventato un concetto così diffuso?

Il termine resilienza è mutuato dalla fisica e si riferisce alla capacità di alcuni materiali di riprendere la forma dopo aver subito degli urti. La parola, effettivamente, si è affermata con uso metaforico in vari ambiti: dall’informatica all’ecologia, dall’antropologia all’urbanistica, ma con un significato che si discosta  un po’ da quello iniziale, specie in ambito psicologico.

A differenza di un ponte che oscilla sotto gli urti e che è resiliente nella misura in cui  poi, si rimette in linea, le persone resilienti sono quelle che, dopo aver vissuto un trauma, sono in grado di riprendere il proprio percorso, ma non tornando uguali al punto di partenza.  La resilienza è, in altri termini, la capacità di affrontare gravi avversità, trasformandole nell’opportunità di  riorganizzare positivamente la propria vita.

 

I traumi ci rendono sempre resilienti?

Intanto i traumi ci rendono più vulnerabili. E non solo psicologicamente. Ci sono degli studi che dimostrano come esperienze avverse e precoci rendono le persone più vulnerabili rispetto alla salute sia fisica che psichica.  Se questo accade in misura maggiore o minore dipende certamente dal fatto che le persone possono essere più o meno resilienti.

 

E quali sono le caratteristiche che fanno una persona più resiliente rispetto ad un’altra?

Sono vari fattori che si combinano, sicuramente ci sono caratteristiche biologiche innate, ma contano molto anche i fattori psicologici individuali come, ad esempio, una buona autostima e fiducia nelle proprie capacità, il disporre di un pensiero più flessibile o il sapersi adattare più facilmente alle nuove situazioni, la curiosità, la capacita di produrre nuove idee e avere progetti. Fa la differenza anche il saper riconoscere e regolare le emozioni, perché sappiamo che le esperienze traumatiche sono traumatiche quando sopraffanno emotivamente l’individuo. Dunque una buona capacità di regolare le emozioni è sicuramente un fattore protettivo.

Ma conta molto anche l’essere in grado di chiedere aiuto che è una qualità molto importante in situazioni avverse. Essere resilienti, infatti, non significa essere “forti” ma anche essere in grado di accettare di essere vulnerabili. La regolazione delle emozioni e la capacità di farsi aiutare, quando è necessario, sono fattori protettivi che si acquisiscono soprattutto nell’infanzia crescendo in un ambiente adeguatamente protettivo. Per questo i bambini che subiscono esperienze traumatiche ripetute diventano generalmente degli adulti meno resilienti di fronte alle avversità.

Poi ci sono i fattori relazionali e sociali: avere degli amici, una famiglia, una comunità su cui poter contare, sono tutti elementi che contribuiscono a rendere una persona resiliente.

 

Ci sono dei modi per poter sviluppare la capacità di essere resilienti?

La resilienza non è soltanto un tratto che una persona ha o non ha, ma è anche un processo, qualcosa che cambia nel tempo, nelle diverse fasi della vita e che può certamente anche essere sviluppato.

Da terapeuta sono convinta che la terapia abbia la funzione di sviluppare la resilienza potendo aiutare le persone a regolare le emozioni, o in generale a potenziare tutti quei fattori individuali di cui abbiamo parlato prima; ma tante altre condizioni possono favorire lo sviluppo della resilienza. Come ad esempio il disporre dell’istruzione e della cultura, o il poter attingere a una spiritualità, a un credo religioso, a delle passioni. Anche il poter contare su una vita sociale allargata o il sentirsi parte di un gruppo aiutano a fronteggiare le esperienze negative e rendono la persona più resiliente.

 

Lei ha lavorato molto con migranti e richiedenti asilo, persone che hanno vissuto l’orrore di scappare da guerre o subire torture. Come ci si comporta in queste situazioni?

Io lavoro da tanti anni con migranti e richiedenti asilo e, occupandomi nello specifico di trauma, ho imparato che non bisogna insistere tanto sulle esperienze traumatiche e le ferite, quanto piuttosto sulle risorse delle persone.

E ‘molto importante vederle come sopravvissute e non solo come delle vittime. Perché se con tutto quello che hanno passato, il viaggio che hanno fatto sono comunque arrivate fin qui, per forza hanno delle risorse e noi è su quello che dobbiamo puntare valorizzando il modo in cui ce l’hanno fatta, e cercando di capire cosa gli è utile e li può aiutare a star bene in questo momento.

 

E cosa le rispondono? Che cosa le aiuta a stare bene?

A volte mi raccontano fatti molto semplici. Mi ricordo di un ragazzo che veniva dalla Nigeria, e mi parlò  di un giorno in cui era uscito dal centro di accoglienza e mettendosi a guardare dei ragazzi italiani che giocavano a pallone alla fine era stato coinvolto. “Loro mi hanno chiesto se volevo giocare, e mi hanno fatto i complimenti per come giocavo e alla fine eravamo tutti contenti” mi raccontò tutto felice. Ecco quell’esperienza per quanto piccola, di essere accolto è una risorsa che questa persona ha, una memoria positiva, un’esperienza buona. E nei momenti in cui magari si sentirà più giù, o avrà più angoscia, poter ricordare questa esperienza può diventare importante per lui. Questo vissuto è un elemento di resilienza che questo ragazzo ha.

 

Sopravvissuto è il termine che usiamo anche sul Forum del Vaso di Pandora dove quello che cerchiamo di fare è offrire un posto sicuro alle vittime di traumi ed abusi, consentendo alle persone di potersi raccontare o semplicemente di ascoltare altre storie.

Conosco il progetto e sono convinta che sia la strada giusta. Mi fai venire in mente quando lavoravo con le donne siriane rifugiate in Giordania vittime di violenza sessuale.

Assieme a loro e ad altre operatrici giordane abbiamo fatto dei gruppi di auto mutuo aiuto.

E mi ricordo che quando chiesi loro di indicarmi un posto in cui si sentivano bene e al sicuro, loro hanno indicato il gruppo.  Nel gruppo avevano trovato il luogo dove non sentirsi più sole, e vittime.

Raccontavano che le difficoltà che vivevano durante la settimana erano più gestibili al pensiero di poterle raccontare nella seduta successiva.

Il senso di appartenenza e la possibilità di condividere in gruppo il loro vissuto doloroso è sicuramente un elemento di resilienza.

 

La cronaca recente ci parla di una grande difficoltà, in Italia ma non solo, delle comunità di aprirsi alla diversità, ma anche alla vulnerabilità altrui. Come se lo spiega?

Quando si cominciano a mettere muri vuol dire che ci si sta difendendo e che non si è più flessibili e capaci di adattarsi, ma soprattutto di arricchirsi con ciò che è nuovo perché è diverso da noi.

Le persone che hanno una individualità poco strutturata, che non hanno una identità chiara, sono le più inclini a temere l’incontro con l’altro.

Poi c’è la paura. Questo periodo ha finito per spaventarci e spaventandosi ci si si chiude, ci si mette sulla difensiva, poi purtroppo c’è chi cavalca questo spavento e questo non aiuta.

 

E come si superano le paure?

La paura dell’altro si supera con la conoscenza.  Con l’incontro.

Ci vuole tempo perché  l’incontro con ciò che è diverso da noi aumenta la complessità ma offre anche nuove potenzialità. E siccome abbiamo parlato tanto di resilienza, dobbiamo ricordarci che le comunità aperte sono le più resilienti, e la resilienza crea maggior benessere per le persone.

 

 

Riferimenti

  • Emerson, D. (2015). Trauma-Sensitive Yoga in Therapy. Bringing the body into treatment.
  • W.W. Norton & Company.
  • Spinazzola, J., Habib, M., Knoverek, A., Arvidson, J., Nisenbaum, J., Wentworth, R. & Kisiel, C. (2013). The heart of the matter: Com- plex trauma in child welfare. CW360° Trauma-Informed Child Wel- fare Practice.
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