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Come si interviene quando c’è un trauma complesso. Intervista a Paola Bertulli.

a cura di Paola di Lazzaro

La cura di un paziente con alle spalle storie di traumi complessi comporta innumerevoli sfide per coloro che svolgono la professione di aiuto. Questi pazienti si presentano infatti con sofferenze emotive e comportamentali molto gravi, e magari con già percorsi di cura fallimentari alle spalle.

La sfida principale  per chi si occupa di traumi complessi è quella di individuare un percorso idoneo, attraverso l’integrazione di modelli di intervento differenti e intervenendo allo stesso tempo sul recupero della mente e del corpo.

Per sapere meglio come si sviluppa in concreto un percorso di cura trauma-focused abbiamo intervistato Paola Bertulli, Psicoterapeuta di formazione cognitivo comportamentale, che da anni svolge un lavoro clinico e di formazione nel campo del trauma.

Paola intanto ci puoi spiegare meglio cosa si intende per trauma complesso e perché si differenzia da un trauma semplice?

I disturbi trauma correlati più complessi sono spesso il risultato non tanto dell’impatto di un singolo evento traumatico, ma piuttosto del fatto di essere stati esposti, per lungo tempo, e magari nella prima infanzia, ad “atmosfere” di tipo traumatico, cioè a condizioni ripetitive, croniche e stabili di minaccia, di insicurezza, di precarietà, di imprevedibilità o chiaro pericolo. Parliamo certamente di abusi sessuali o fisici, dove il soggetto è direttamente vittima di violenza di varia natura, ma parliamo anche di abusi emotivi, come l’esser cresciuti o vissuti per un periodo in un clima di dura disciplina, di umiliazione, di critica svalutante oppure è possibile che si sia stati esposti ad ambienti fortemente “invalidanti”, cioè incapaci di sintonizzarsi con la particolare sensibilità di un bambino e rispettarla, o incapaci di riconoscere la legittimità e la sensatezza delle sue particolari risposte emotive, in linea col suo temperamento e la sua storia, ma non con le aspettative degli adulti su di lui o con il loro stile di personalità.

Può accadere che la persona sia stata esposta come testimone ad atti di violenza, come accade ai bambini che subiscono scene quotidiane di violenza domestica o di forte conflitto tra genitori e si sentono impotenti, esposti e spaventati.

Oppure parliamo di quelle condizioni di profonda trascuratezza definite col termine di “neglect”, dove l’individuo può soffrire della mancanza di cure primarie (assenza di cibo, della protezione di una casa, non esser protetti dal freddo o curati nelle malattie, essere lasciati soli la notte o percepirsi soli e esposti ad un pericolo) o anche della mancanza di una presenza affettiva, come nei casi in cui i genitori sono affettivamente assenti, freddi, distanti, anaffettivi, oppure malati, e pertanto incapaci di fornire presenza, sintonizzazione, sicurezza e cure al proprio figlio.

 

Come si presentano  in età adulta  le  persone che hanno vissuto esperienze cosi complesse e traumatiche?

Uno studio ormai universalmente noto (Ace Study, Felitti et al., 1998 ndr) conferma alla luce di quanto già detto che l’esposizione ad eventi sfavorevoli infantili aumenta in età adulta il rischio di alcolismo, abuso di droga, depressione, suicidio accresce inoltre in modo sostanziale il rischio di malattie fisiche (obesità, patologie epatiche, respiratorie, ischemiche) e riduce di molto l’aspettativa di vita.

Queste persone, inoltre, non hanno mai imparato a prendersi cura di sé, perché non gli è stato insegnato, e pertanto possono trascurare delle malattie e trovarsi ad avere problemi medici di varia natura.

Sono persone che presentano una forte instabilità emotiva, con sbalzi di umore frequenti, estrema reattività agli stimoli, difficoltà a tollerare gli stati emotivi negativi, disturbi del sonno, dell’alimentazione faticano a riconoscere le emozioni, i bisogni o le sensazioni corporee presentano sintomi di tipo dissociativo, indicativi del fatto che la memoria, il pensiero, la coscienza, la percezione dell’ambiente e l’identità sono state alterate nel loro sviluppo dall’impatto del trauma: la persona può avere amnesie rispetto a certe fasi della vita, percepire le proprie emozioni o parti del proprio corpo come “altro da se” o estranee, avere la sensazione di voci interne che, come fossero più narratori di una stessa storia, commentano ciò che lui fa o sente può percepire parti di sé o della realtà come irreali, distanti, oppure sentirsi in una bolla, o come in un film. Può accorgersi di avere parti del proprio corpo anestetizzate, non sentirsi “dentro” il proprio corpo, o sentirsi alienato rispetto alla realtà può rendersi conto di perdere molto tempo, a volte ore, o avere reazioni fisiche di allarme incongrue a stimoli che di fatto non appaiono cosi minacciosi, come paralizzarsi di fronte a qualcuno che parla in modo gentile o aver reazioni di fuga e di evitamento in situazioni di intimità con un partner presente e affettuoso può soffrire di ricordi intrusivi e disturbanti e flashback, e reagire come se qualcosa di terribile, accaduto nel passato, stesse svolgendosi ora. Può avere stati di torpore in cui si sente del tutto privo di energia e in preda alla sonnolenza senza apparente motivo, o svenire può avvertire un vuoto mentale terrificante o un profondo senso di confusione, come se in testa ci fosse un brusio o un rumore di fondo.

Queste persone inoltre hanno un cervello cosi provato dalla loro storia traumatica che faticano a concentrarsi, organizzare piani, studiare e essere mentalmente efficienti e organizzati.

Spesso hanno una bassa autostima, una forte vergogna, a volte un profondo senso di disgusto di sé, e possono sentirsi sbagliati o senza speranza, come se fossero rovinati per sempre.

Tendono ad avvicinarsi troppo a persone senza conoscerle abbastanza, a volte mettendosi, purtroppo di nuovo, a rischio, o alternativamente, essere diffidenti di tutti e molto sospettosi e guardinghi. Possono gestire le separazioni e i lutti con estrema difficoltà e, al tempo stesso, vivere momenti di grande difficoltà quando si legano profondamente a qualcuno.

 

Si può’ arrivare fino all’autolesionismo?

Sì, queste persone spesso ricorrono all’autolesionismo (tagli, bruciature, lesioni autoinflitte di varia natura) nel tentativo di gestire, inducendosi dolore fisico, il profondo dolore emotivo da cui si sentono travolti. A volte l’autolesionismo serve alla persona per “sentirsi” o tornare a “sentire il corpo”, percepirsi più reali e quindi calmarsi. Oppure può avere una valenza autopunitiva, come se una parte del sé volesse punirne un’altra con cui è in conflitto, o infine un modo disperato per chiedere aiuto e far capire all’ambiente quanto intensa è la propria sofferenza.

A volte stati profondi di angoscia, senso di vuoto, terrore di essere abbandonati, o paure intrusive legate a ricordi di cui non ci riesce a liberare, portano a ricercare conforto nell’abuso di alcol, di sostanze, nella masturbazione compulsiva, nelle abbuffate, tutti tentativi capaci di fornire un sollievo a breve termine ma  poco efficaci nel regolare, di fatto, emozioni percepite come soverchianti e ingestibili.

 

Da un punto di vista neurologico  cosa accade nel cervello di una persona traumatizzata?

L’esposizione ad atmosfere o condizioni traumatiche protratte altera in vari modi un adeguato funzionamento e sviluppo del cervello e delle sue aree, interferendo nella qualità della comunicazione e della connessione tra aree cerebrali diverse, nate per funzionare in maniera dinamica e integrata, creando cosi una potente instabilità e disregolazione emotiva.

Dobbiamo partire dal presupposto che il nostro cervello è composto, in realtà, da tre cervelli. Il più antico, nelle regioni profonde del cervello, è detto cervello rettiliano, e media le reazioni vitali per la nostra sopravvivenza di fronte ad una minaccia: regola il respiro, il battito cardiaco e tutte quelle risposte fisiologiche che ci consentono di fuggire, attaccare e difenderci quando necessario. Al di sopra di esso c’è il cosiddetto cervello limbico, sede delle emozioni, della memoria e dell’amigdala, la parte del cervello che è deputata a intercettare la presenza di un pericolo nell’ambiente. Ad un livello ancora più elevato troviamo la parte più evoluta del nostro cervello, la corteccia, sede del pensiero logico più raffinato. In presenza di una situazione minacciosa il nostro cervello rettiliano si attiva per primo, mettendoci in condizione di difenderci nel minor tempo possibile la corteccia temporaneamente è disattivata per consentire alle parti più istintive e primitive del nostro cervello di fare, rapidamente, ciò che è necessario per proteggerci.

Una ricerca abbastanza recente (Mobbs et al., 2009 ndr ) dimostra che le persone che hanno storie traumatiche hanno un detector del pericolo iper attivo e un funzionamento dominato, in modo costante, dal cervello rettiliano, dove resta a lungo termine l’impronta del trauma: essendo più primitivo e viscerale, esso parla “il linguaggio delle sensazioni”, dove la logica interviene solo parzialmente o per nulla.

 

E come se chi subisce un trauma non avesse più accesso al pensiero razionale per distinguere il passato dal presente?  E soprattutto sperimentare uno stato in cui ci si possa sentire finalmente al sicuro?

Uno dei maggiori esperti mondiali di trauma, Bessel van der Kolk, sostiene che il trauma non ha nulla a che fare col pensiero logico, ma quando è protratto e soprattutto se si verifica in fase evolutiva, fa si che il corpo e le sue reazioni si plasmino e si riorganizzino per interpretare il mondo, sempre e in modo costante, come se fosse un luogo pericoloso, imprigionando la paura in profondità nel corpo. La paura, la rabbia, la vergogna diventano le emozioni dominanti e questo impedisce di sentirsi al sicuro, concentrarsi, pensare, esser curiosi, e fa si che ci si comporti come se il passato non fosse mai finito.

Cosi come avviene al momento del trauma, quando, anche dopo anni, accade qualcosa che lo ricorda o lo riattiva (fun trigger, cioè un suono, una situazione, un tipo di sguardo, un odore) il comportamento sarà dominato dal cervello rettiliano che ci farà agire come se fossimo, davvero qui ed ora, in pericolo come un tempo le aree della corteccia, che ci consentono di spiegare a parole ed elaborare il significato di quello che ci accade, sono temporaneamente disattivate, per cui la reazione sarà del tutto istintiva e non saremo in grado di dire o spiegare quello che ci accade. Inoltre sarà disattivata quella parte del cervello che è la nostra stazione di sicurezza, quella che ci consente di dire “sono al sicuro adesso”, e anche quella parte, chiamata ippocampo, che mette in ordine logico e cronologico i nostri ricordi. Pertanto non sarà cosi facile distinguere il passato dal presente, ciò che davvero accade ora da ciò che è solo un ricordo. Ecco perché si dice che le vittime di gravi traumi hanno sintomi anziché ricordi (Harvey, 1990): la loro disregolazione, causata da questi ricordi impliciti innescati, fa si che essi presentino tanti sintomi diversi, come se presentassero a volte tutti i disturbi potenzialmente presenti in ambito psichiatrico, che spesso sono da un lato la riattivazione dello stato traumatico e dall’altro l’insieme di strategie più o meno disfunzionali (es. l’uso di droghe o l’autolesionismo) che le persone hanno sviluppato per resistere e sopportare condizioni di vita davvero complesse e tragiche.

 

Quali sono le possibilità di interventi terapeutici di fronte ad una tale complessità?

La buona notizia è che la ricerca scientifica si è arricchita negli ultimi anni di un ventaglio piuttosto ampio di strumenti per affrontare questa estrema complessità, e molti terapeuti si stanno formando in terapie specifiche.

La pratica clinica di chi lavora da anni nel campo del trauma e della dissociazione incoraggia in genere approcci integrati, dove il terapeuta abbia varie formazioni, alcune specifiche nel settore del trauma e altre non (Terapia sensomotoria, EMDR, Somatic Experience, Teoria della Dissociazione strutturale, tecniche cognitivo comportamentali, Terapia dialettico Comportamentale, tecniche ipnotiche, formazione in teoria dell’attaccamento, neurobiologia del trauma, psicodinamica, neurofeedback) e sappia utilizzare in maniera sapiente i vari strumenti di cui dispone, modellando l’intervento terapeutico sulle caratteristiche specifiche della persona che ha davanti e sulla qualità del suo funzionamento attuale.

Personalmente ritengo che, di fronte alla evidenza scientifica che le tracce del trauma sono per lo più memorie implicite e di natura somatica e corporea, sia prudente rivolgersi a terapeuti di provata esperienza che abbiano, anche, una formazione specifica in tecniche a mediazione corporea, come quella tipica dell’approccio sensomotorio. Ritengo anche essenziale la conoscenza dell’EMDR che è un approccio clinicamente riconosciuto come efficace da tempo e che ha una ricchissima ricerca alle sue spalle.

E’ molto importante che il terapeuta sia in grado di fornire al paziente un percorso terapeutico con fonti documentate, fatto di psicoeducazione (fornire informazioni circa il proprio disturbo e i suoi effetti sulla vita e il funzionamento), usi e insegni tecniche che incrementino la capacità di riconoscere e gestire i sintomi dissociativi, che consentano di gestire e regolare le emozioni, cosi pesantemente alterate dall’impatto del trauma è fondamentale inoltre che il terapeuta e il paziente si focalizzino il prima possibile su strategie che aiutino a migliorare la qualità della vita e del funzionamento quotidiano (svegliarsi, avere un lavoro, vivere in condizioni di sicurezza, mangiare in modo regolare, avere una rete sociale di supporto, saper chiedere aiuto quando necessario, avere piani di crisi per le emergenze, interrompere dipendenze lesive) , e, quando possibile, soprattutto quando la persona ha gli strumenti per affrontarli, lavorare con tecniche specifiche (Terapia Sensomotoria, EMDR, Dissociazione strutturale, Esposizione) sui vissuti traumatici. La relazione con l’altro in queste persone è cosi profondamente correlata alla esperienza traumatica che spesso il solo fatto di entrare in terapia e stabilire un rapporto di fiducia e collaborazione  è già l’inizio di un reale, profondo, difficile percorso di rielaborazione dei vissuti più dolorosi.

 

Si tratta come appare evidente di percorsi lunghi che richiedono tanta energia e motivazione ma che possono di fatto aiutare a costruire una vita, e delle relazioni, degne di essere vissute.  Il vaso di Pandora può’ essere considerato uno strumento utile?

Progetti come il  Vaso di Pandora rappresentano dei riferimenti estremamente preziosi, perché forniscono  informazioni scientifiche aggiornate e di estremo rilievo, e allo stesso tempo consentono ai survivors la comunicazione e la condivisione di esperienze e il reciproco supporto, e possono mediare l’accesso, per chi ritiene di averne bisogno, a percorsi terapeutici specialistici.

Riferimenti

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