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Arte e trauma : Conversazione con Cecilia Casorati

a cura di Federica Rondino

 

Abbiamo incontrato Cecilia Casorati curatrice d’arte, docente all’Accademia delle Belle Arti di Roma e autrice. Con lei abbiamo indagato il rapporto che esiste tra arte e trauma.

 

Da sempre c’è uno stretto legame tra l’arte e il trauma e tra l’arte e chi ha disturbi psichici, come mai?

L’arte ti aiuta a tirar fuori la parte creativa che hai. Ti permette di usare l’immaginazione.

Yayoi Kusama, un’artista molto nota, ha sempre detto che per lei è stata l’unico sistema per salvarsi. La Kusama vive in manicomio da moltissimi anni per sua scelta. La sua vita è stata fortemente traumatizzata dalla madre che, tra le altre cose, non voleva che lei facesse l’artista; racconta che quando si sentiva rimproverata andava a parlare con i fiori e gli animali e poi riportava le conversazioni su carta. L’arte per lei è stata la sua salvezza; disegnava per ore per sfuggire a una realtà insopportabile.

Tra tutte le forme d’arte il disegno è quella più meditativa.

 

Come mai?

Anche semplicemente per la posizione che assumi. Sei seduto, con il foglio davanti a te. Inoltre quando disegni c’è una tendenza a tracciare le linee e a guardarle, staccandosi da quello che stai facendo. Guardi il disegno, pensi a quello che stai realizzando e, con naturalezza, la mente vaga.

Non a caso, lavori sull’inconscio di un artista tanto tormentato come Schiele sono disegni. Anche Munch ha disegnato tantissimo soprattutto disegnando se stesso. Riflettendo sul sé, più che sull’io.

 

Qual è l’esperienza più interessante che c’è oggi di arte terapia?

Uno degli esempi più interessanti è l’ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano. Le psicoterapeute del Centro hanno deciso di far lavorare i pazienti in Day Hospital con degli artisti affermati. Gli artisti non cambiano la loro poetica nel lavorare con i pazienti. Ovviamente, gli psicoterapeuti spiegano agli artisti se ci sono cose che possono turbare i pazienti. L’aspetto più interessante è che poi questi lavori vengono esposti duranti MIART, un’importante Fiera internazionale di arte, che si tiene ogni anno a Milano. I pazienti hanno l’opportunità di mostrare le proprie opere in un luogo deputato all’arte, con una dignità espositiva, che, tra le altre cose, è utile per “liberarsi” e non sentirsi diversi e inadeguati al mondo.

Da sempre l’arte è stata, anche, terapeutica. L’idea di esporsi è fondamentale. Esporre, presuppone un percorso di progettazione, di riflessione, che non è solo legato a creare un oggetto, ma è un pensiero e, insieme, una liberazione.

 

Puoi citarmi qualche progetto interessante in questo senso?

Michelangelo Pistoletto ha realizzato negli anni ‘60 una serie di lavori che ha come titolo “Oggetti in meno”, un’opera che non ha mai voluto vendere. Li ha chiamati “Oggetti in meno”, perché – è lui stesso a raccontarlo – sono qualcosa che  desiderava fare e che ha fatto….sono un desiderio in meno.

 

Per il libro da Wonder Woman a Bebe Vio, realizzato per promuovere e autofinanziare Il Vaso di Pandora, hai scritto, oltre che della Kusama, anche di Louise Bourgeois.

La Bourgeois è una grandissima artista che ha avuto un passato traumatico. Ha avuto un padre maschilista, che, mentre ancora viveva con la moglie, era diventato l’amante della “tata” di Louise. La Bourgeois racconta che,  quando era bambina, il padre la prendeva in giro davanti a tutti dicendo che le mancava la cosa più importante: il pene. L’arte le ha permesso di ripercorrere il trauma e, in parte, di superarlo. Lo ha fatto con le opere e scrivendo un libro che s’intitola: Distruzione del padre / Ricostruzione del padre.

Il rapporto traumatico con il padre, inoltre, ha fatto sì che la Bourgeoise si sia legata tantissimo alla madre. Una delle sue opere più famose è Maman: un gigantesco ragno che conserva nel ventre delle uova. È l’immagine di colei che pazientemente e tenacemente è capace di ricucire ogni ferita.

So che ti è capitato di preparare moduli per corsi di arte terapia. Qual è l’elemento più importante?

Per me, è l’immaginazione il punto centrale. Tra l’immagine e l’immaginazione il confine è molto sottile. Liberando l’immaginazione è possibile allargare la visione, uscire dalla prigione che il trauma inevitabilmente crea. L’immaginazione è una delle pochissime cose realmente democratiche.

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