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Attenzione a considerare la pedofilia come un qualcosa che può accadere solo in contesti come Caivano.

Rosa Cappelluccio, la psicoterapeuta che ha raccolto la testimonianza dall’amichetta di Fortuna Loffredo, ci racconta perchè Caivano non può essere considerato un fatto isolato.

di Paola Di Lazzaro

Come sono andati realmente i fatti al Parco Verde di Caivano lo stabilirà la giustizia. Di certo c’è che Fortuna Loffredo è morta a soli 6 anni, caduta o lanciata dall’ultimo piano del suo palazzo. Di certo c’è anche che, sul suo corpo, gli esami autoptici hanno dimostrato segni di violenza e di abusi sessuali ripetuti. Esami che confermano le stesse violenze sul corpo di Anna, la bambina che all’epoca dei fatti aveva 9 anni e che, con le sue dichiarazioni, ha consentito l’arresto di Raimondo Caputo, suo patrigno e presunto stupratore e assassino di Fortuna, e, sempre stante alle dichiarazioni di Anna, anche violentatore suo e dei fratelli. Sulle vicende di Caivano si è espresso anche il Presidente della Repubblica, auspicando che “su Fortuna l’inchiesta sia rapida, ampia e severa”. Mentre la giustizia fa il suo corso, noi non possiamo non interrogarci su come certe cose possano accadere nell’Italia del 2016, e non possiamo non chiederci dove sono le reti sociali, le istituzioni, la scuola, che dovrebbero vigilare anche, e soprattutto, su contesti familiari problematici. Per capirlo abbiamo provato a fare qualche ragionamento con Rosa Cappelluccio, la psicoterapeuta che si è occupata sin dall’inizio del caso di Fortuna e che ha raccolto la testimonianza della piccola Anna.

Rosa, nel rispetto del segreto giudiziario, visto che le indagini sono ancora in corso, ci racconti che idea ti sei fatta della vicenda?

Sono stata contattata subito dopo la morte della bambina, perchè da anni sono consulente di fiducia presso diverse procure in Campania e devo dire che il quadro che mi si presentato è stato, sin da subito, molto chiaro. Fortuna, ad esempio, il giorno in cui è morta tornava da un centro di riabilitazione, dove andava perché manifestava disturbi del linguaggio e dell’apprendimento. Un disagio a cui probabilmente è stata data poca attenzione. E già dopo il primo colloquio con Anna, l’amichetta di Fortuna, ho proposto che la bambina fosse allontanata dalla famiglia e da quel contesto ambientale che non le avrebbe mai consentito la serenità necessaria per poter raccontare, liberamente, quello che era successo quel giorno.

E’ una storia che lascia atterriti quella di Caivano, una storia di degrado e promiscuità, di padri orchi e madri complici. Ci si può appellare al solo degrado culturale per spiegarci umanamente una vicenda così?

In questa circostanza il contesto conta molto. Resta, però, da chiedersi perché situazioni che si sanno essere così problematiche vengano abbandonate a se stesse. Questi bambini frequentano le scuole, le parrocchie, spesso sono seguiti da assistenti sociali. E non ci si può limitare a pensare che Caivano sia un mondo a sé, su cui non si poteva o può intervenire per tempo.

Di recente il Garante per l’infanzia ha diffuso dati che raccontano di oltre 3500 bambini e adolescenti, in tutta Italia, seguiti da servizi sociali perché vittime di abusi. Sono numeri attendibili?

Temo che siano solo la punta dell’iceberg. Perché per un minore denunciare è un caso limite e a farlo per lui dovrebbero essere gli adulti, che siano i familiari, i docenti, gli operatori sociali. E anche questo non succede quasi mai, perché si ha troppa paura di fare una denuncia o perché non si conoscono le procedure. Ad esempio, in pochi sanno che basta anche fare una segnalazione ai servizi sociali, che può rimanere anonima, e non avere nessuna valenza penale, e in questo modo aiutare tanti bambini a rischio a uscire dall’orrore.

Dove accadono la maggior parte delle violenze?

In famiglia. Nel contesto familiare. E’ difficile e doloroso pensarlo, ma dobbiamo guardare intanto dentro le nostre famiglie. Non limitandoci a pensare che sono orrori che albergano esclusivamente in contesti culturali di forte degrado.

Esiste un identikit del pedofilo?

No. Esistono sicuramente molti casi di collusione o di normalizzazione. Come a Caivano, dove, apparentemente, in molti sapevano e hanno protetto i colpevoli. Nella mia esperienza professionale ho, però, conosciuto tantissimi pedofili che conducono una vita normale, padri o madri irreprensibili, pronti a trasformarsi in orchi.

E dei bambini vittime di abusi? Di loro possiamo accorgerci?

Sì. E se non succede è perché non vogliamo farlo. Non siamo pronti a raccogliere segnali inequivocabili che esprimono il disagio e la sofferenza.

Prima dei bambini dovremmo aiutare gli adulti a imparare a capire questi segnali? Entrambi. Vanno aiutati entrambi. I bambini a riconoscere quando sono in pericolo e quali sono i limiti entro cui un adulto può entrare in relazione con i loro corpi. Agli adulti va, invece, insegnato a decodificare i segnali dei bambini. Esistono specifici percorsi di formazione. Ci vuole la volontà di realizzarli. A cominciare dalle scuole e dalle parrocchie.

Che ripercussioni avrà, da adulto, un bambino vittima di abusi?

Le conseguenze del trauma possono essere devastanti, ma possono manifestarsi in modo diverso a seconda dei casi, della durata dell’abuso, del rapporto che il bambino aveva o continua ad avere con l’abusante. Di sicuro tutti coloro i quali hanno subito violenza in età infantile avranno difficoltà enormi a discernere tra attaccamento e sessualizzazione. Il bambino-adulto si affaccerà sempre alla relazione in un modo sessualizzato pensando che, solo attraverso il sesso, riuscirà a farsi dare anche amore e accudimento.

In che misura un progetto come Il Vaso di Pandora che promuove la possibilità di superare il trauma da abuso anche in età adulta può essere socialmente utile?

Lo può essere in tantissimi modi. Intanto, nel portare avanti un tema come quello della violenza sui minori che è ancora un tabù nel nostro paese. E poi perché la comunità di auto-aiuto che si sta creando all’interno del forum di Pandora può aiutare i singoli a uscire da sentimenti diffusi di paura e vergogna. E infine perché si può trovare, anche dopo tanti anni, il coraggio di denunciare il proprio carnefice.

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