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Violenza sulle donne. Le leggi non bastano se non cambia la società . Intervista all’avvocata Antonietta Confalonieri.

a cura di Paola Di Lazzaro

Pochi giorni fa tra il 13 e il 14 luglio, in Italia, altre quattro donne sono state uccise in meno di quarantott’ore dai loro compagni o da ex, mentre una è in fin di vita.  La sensazione è che ci si stia quasi abituando alla contabilità dei numeri (“sono in calo rispetto allo scorso anno”, dice qualcuno, “no, se contiamo le denunce sono in aumento” contestano altri) la verità è che il tema della violenza sulle donne, che valica i confini italiani, coinvolge aspetti culturali, sociali, psicologici oltre che giuridici e come tale, con tutta la complessità del caso, andrebbe affrontato.

Per questo abbiamo scelto di parlarne con Antonietta Confalonieri, avvocata penalista che da da tempo collabora con diversi centri anti-violenza e fa parte dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani, occupandosi di violenza di genere e traffico di essere umani. Lei nella sua vita di vittime e carnefici ne ascoltati e conosciuti tanti ed è una di quelle persone che, negli anni, ha capito che  affrontare il tema della violenza di genere con i soli strumenti normativi non bastava.

Dottoressa Confalonieri,  lei oltre ad essere avvocata, ha anche una seconda laurea in psicologia, conduce pratiche di mindfulness, è esperta di tutela di diritti umani, è counselor. Quanto è stata importante nel suo lavoro questa interdisciplinarità?

Questa “interdisciplinarità” è proprio voluta.

Nasce dalla mia “sete di conoscenza” e dalla scelta – che ripeto ogni giorno – di voler svolgere una “professione di aiuto”.

L’essere umano è al centro dell’universo in cui intendo muovermi, per tutelarne i diritti (nello spazio giudiziario italiano e internazionale), per riconoscere la sua vulnerabilità, anche ricevendone le emozioni, e per ascoltare i bisogni, con empatia e senza giudizio (conseling). La Mindflulness, la pratica di presenza e consapevolezza è la tecnica per affrontare la quotidianità.

La mia professionalità è ormai fondata sulla consapevolezza, e si compone come un puzzle, in cui ogni tassello corrisponde a una competenza complementare, arricchita dalla esperienza in vari settori, in modo da poter supportare al meglio la persona che “mi chiama in aiuto”.

Abusi, maltrattamenti, stupri, stalking, femminicidi quante sono le forme della violenza sulle donne?

Qui, l’orizzonte non ha confini né geografici né culturali, e si estende a vista d’occhio, mostrando dati universali nel contesto internazionale.

E’ incredibile constatare come la donna, da simbolo della divinità, della fertilità e della vita sia diventata un oggetto da distruggere: da dea madre a vittima sacrificale.

La donna riceve violenza per il solo fatto di essere donna. E’ persino riconosciuto dai giudici chiamati ad occuparsene.

Le forme della violenza di genere sono infinite: alcuni aspetti abbiamo imparato a riconoscerli, mentre altre modalità sono più nascoste e rimangono celate dietro il velo di usi e costumi culturali. Alcune strutture le abbiamo nominate e catalogate, mentre altre forme sono ancora difficili da cogliere, come ad esempio, prime fra tutte quelle insite nel linguaggio e attuate attraverso vari modi di manipolazione.

Le forme di violenza di genere più evidenti sono quelle fisiche, mentre sono più “sottili” quelle che colpiscono la psiche. Penso ad esempio, alla manipolazione mentale, conosciuta anche grazie al film ANGOSCIA, e da qui chiamata “gaslighthing”, termine inglese, difficile da pronunciare. E’ quella forma di pressione psicologica con la quale false informazioni sono presentate alla vittima, con l’intento di farla dubitare della sua stessa memoria e percezione.

La considero una delle forme di pressione psicologica più diffuse, e difficile da rilevare e sanzionare.

Data la loro gravità, altre forme di violenza di genere sono state espressamente “codificate”, vale a dire hanno ricevuto un nome giuridico.

La violenza è un fenomeno strutturale della intera comunità internazionale, delle nostre società; e viene usata come uno strumento di controllo della vita della donna, influendo su ogni spazio della esistenza femminile: in famiglia, al lavoro, per la strada, sui giornali, nei tribunali, negli ospedali, nella scuola.

Una donna ammazzata ogni tre giorni, e una su tre vittima di abuso nel corso della vita.  A leggere i numeri e le statistiche sembrerebbe che quella contro la violenza sulle donne sia una battaglia impossibile da vincere.

Ho la sensazione che il fenomeno della violenza di genere sia di gran lunga più diffuso di quanto non si percepisca, e che le statistiche non riescano a cogliere la parte del fenomeno sommerso (come la violenza tra le mura domestiche) e perciò fornire una esatta rappresentazione della realtà.

Se da un lato, sembra sia diventato più agevole riconoscere le forme di violenza psicologica e dunque contenerle, dall’altro lato, gli atti di violenza fisica e quella sessuale sono nettamente accresciuti soprattutto nella loro efferatezza.

Quanto ai numeri è dei primi giorni di luglio l’indicazione fornita dal Capo della Polizia- Direttore Generale della Pubblica Sicurezza nel corso della sua audizione in Senato presso la commissione di inchiesta sul femminicidio. Il Prefetto Gabrielli ha evidenziato un leggero calo rispetto al 2016 e ha spiegato che nella maggior parte dei casi l’aggressore è “il partner (53%) o l’ex partner (15%)”. Nel 28% dei casi il movente sarebbe passionale, mentre nel 38% si tratta di liti degenerate in violenza. I femminicidi, inoltre “continuano a costruire la maggioranza degli episodi commessi nell’ambito familiare”.

A prescindere dai numeri, che negli ultimi giorni hanno portato a 3 le vittime in un solo giorno e mostrato come i motivi delle liti siano davvero futili (come le “briciole sul tavolo”, che ha portato alla uccisione della giovane in vacanza in Sardegna) è certo, come dice il Pref. Gabrielli che “anche una sola vittima non può essere una perdita accettabile”.

Non considero la necessità di intervento nello spazio della violenza di genere come una “battaglia” (termine che di per sé evoca impetuosità) per tendere ad un vittoria, ma un accordo e un impegno collettivo per modificare l’attuale espressione di una cultura che disconosce il diritto della donna alla autonomia, indipendenza, affermazione e persino alla sua stessa esistenza. In questo momento è in discussione il diritto alla vita della donna.

E come si può rispondere?

La società deve società svolgere un ruolo fondamentale  Noi tutti siamo parte del puzzle della società civile e con ogni nostro gesto possiamo contribuire a creare quelle “misure necessarie per promuovere i cambiamenti nei comportamenti socio culturali” e vigilare affinché cultura, usi, costumi, religione, tradizione e cosiddetto “onore,” non possano essere utilizzati per giustificare la violenza.

In questi anni è cambiata soprattutto la sensibilità. Di certo, si è sviluppata una maggiore attenzione di tutti verso il fenomeno della violenza, insieme ad una nuova consapevolezza.

Assistiamo ad un cambiamento culturale che avviene in modo naturale. Probabilmente è necessario indirizzarlo, anche con il supporto normativo, verso una evoluzione impedendone, invece, una involuzione. Le leggi, però, non bastano perché non tutti i risultati possono essere ottenuti con misure legislative; il rispetto e la civiltà non possono essere imposti con una norma coercitiva della serie “art. 1 chiunque deve essere civile”.

Serve un controllo sociale e questo non può essere imposto ex lege.

Viviamo in una società dove “portare rispetto” verso l’altro è ormai un atteggiamento raro. Il rispetto non sta scritto nelle leggi, ma di certo nei cromosomi del nostro DNA. Il rispetto è quell’atteggiamento che nasce dalla consapevolezza del valore di qualcosa o di qualcuno, cioè del valore dell’essere umano. Il rispetto è quella volontà di fermarsi davanti alla sacralità dell’essere umano.

Viviamo in una società dove si sta perdendo il rispetto per il valore della vita, propria e altrui.

Quale è stato il caso più difficile, dal punto di vista umano, che ha seguito?

Trovo “difficile”, dal punto di vista umano, spiegare ad una vittima vulnerabile che il “sistema giustizia” non sempre è in grado di “proteggerla” e che lo Stato nonostante l’insieme di leggi scritte, talvolta, non riesce a garantire la sua incolumità ed assicurarle un risarcimento per il danno subito.

Alludo anche a quella “inadeguatezza operativa” che è stata evidenziata nella sentenza Talpsi, pronunciata nello scorso mese di marzo dalla Corte di Strasburgo, che ha condannato lo Stato italiano per non aver garantito il diritto alla vita della donna che ripetutamente aveva denunciato di essere vittima di violenze.

La Corte dei diritti umani, richiamando l’obbligo che incombe sullo Stato di garantire il diritto alla vita (art. 2 CEDU), ha censurato “il mancato intervento delle autorità, nonostante le ripetute denunce della donna per le violenze del marito, che ha creato una situazione di impunità che è scaturita nell’uccisione del figlio della coppia e nel tentato omicidio della donna stessa.” Si è trattato di una violenza inflitta in virtù del suo essere donna, cioè fondata sul sesso e per questa ragione discriminatorie (art. 14 CEDU). La Corte, dopo aver ritenuto che la donna-ricorrente può collocarsi nella categoria di persona vulnerabile che ha diritto alla protezione dello Stato, ha considerato il livello della violenza subita talmente grave da rientrare nel concetto di “trattamenti inumani e degradanti e tortura” (art. 3 CEDU) e perciò ha attribuito allo Stato la responsabilità di un intervento inadeguato nonostante la richiesta giudiziaria invocata dalla vittima.

Fermare la violenza non è una questione di leggi perché – osservano i giudici di Strasburgo – nonostante le riforme sono, invece, proprio “le attitudini socioculturali di tolleranza della violenza domestica” che persistono.

In definitiva, non basta scrivere le norme (come ad esempio la ratifica della Convenzione di Istanbul, sulla lotta alla violenza di genere) per assicurare giustizia.

Sembra, però, che il clamore per la decisione di Strasburgo abbia suscitato una nuova sensibilizzazione, e che nel cambiamento già in atto si sia fatto un ulteriore passo in avanti.

Nella mia professione sono stata “ad avocata”, chiamata ad assumere la difesa della donna (anche di minore età) vittima di condotte che esprimevano una violenza efferata, alle volte oltre ogni immaginazione.

E’ proprio per affrontare queste situazioni che ho ritenuto importante completare la mia formazione professionale con il counseling. Ho, così, sviluppato l’abilità ad ascoltare, senza giudizio, e a mantenere lucidità ed equilibrio anche nelle situazioni più drammatiche. L’ascolto è lo spazio più importante: dal punto di vista psicologico, il dover raccontare un fatto violento comporta una attivazione interna con un immediata sensazione dolore, anche fisico, insieme alla vergogna, il senso di colpa, la paura del giudizio e non essere credute.

La credibilità della testimone diventa un punto nevralgico nel processo penale, dove alle regole per valutare le sue parole, alle volte si sovrappone la difficoltà nel riuscire a credere che la violenza subita abbia raggiunto quella efferatezza che viene raccontata.

Una  donna che si sente in pericolo, minacciata da un partner o un ex che cosa può o dovrebbe fare?

Trovo che la società abbia il dovere di impedire che l’universo femminile sia a rischio di estinzione. In particolare, ritengo che ogni uomo abbia il dovere di intervenire per “educare” il proprio simile al rispetto per ogni essere umano, anche di sesso diverso.

Non voglio che le donne abbiamo un decalogo per difendersi in situazioni infinite ed imprevedibili, mentre ho fiducia nel fatto che gli uomini in questo momento storico scelgano di impegnarsi perché vi sia un diffuso rispetto verso l’essere femminile che genera la vita.

Ritengo che l’opera di prevenzione e protezione debba passare attraverso la collaborazione del mondo maschile.

In questo senso i mass media possono e devono svolgere un ruolo fondamentale (come richiesto dall’ONU nella osservazione CESDAW 2011). Viene rivolto alla stampa l’appello ad attuare politiche di educazione e di istruzione e un vero e proprio ordine di promuovere campagne e programmi di sensibilizzazione per aumentare la consapevolezza … delle varie forme di manifestazioni di tutte le forme di violenza — e delle loro conseguenze sui bambini (art. 13 COE Istanbul).

In ogni caso, le numerose guide lines psicologiche invitano la donna a vincere i sensi di colpa, a chiedere aiuto, a parlare con persone che hanno una preparazione, ad evitare che le situazioni conflittuali degenerino ed altro ancora, ma l’invito più importante è quello di evitare di giustificare le forme di violenza, di pensare di poter “cambiare” l’uomo violento.

Solitamente la violenza avviene tra le mura domestiche, in famiglia. Bisognerebbe forse ripensare anche il modello o il senso della parola famiglia?

Vedo in crisi il rapporto interpersonale e la relazione tra il femminile e il maschile piuttosto che il modello di famiglia.

Quando l’uomo tenta di distruggere la donna significa che sta cercando di distruggere il femminile, senza percepire il fatto che sta distruggendo una parte di sé stesso: ogni essere umano ricomprende in se il maschile e il femminile, rinnegare uno dei due aspetti significa rinnegare la propria natura.

Se ogni animale feroce è istintivamente (grazie al suo cervello rettile) portato a difendere la propria femmina e i suoi cuccioli dai pericoli interni ed esterni al branco per quale ragione, talvolta, il cervello umano “ragiona” in senso opposto ?

A quelli che dicono che  non esiste una specifica violenza di genere, cosi come non c’è necessità della parola femminicidio cosa si sente di rispondere?

Inizio con dire che è necessario conoscere e guardare la realtà, del mondo intero, in modo obiettivo e colmando le lacune informative.

La violenza contro le donne è una delle più diffuse violazioni dei diritti umani, senza distinzioni geografiche, economiche, culturali o sociali.

L’espressione “violenza contro le donne” nasce a livello internazionale, e indica “ogni atto di violenza fondato sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le semplici minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà che avvenga nella vita pubblica o privata”.

La necessità di fermare questo fenomeno globale ha portato negli ultimi anni alla firma della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa (11.05.2011), attualmente in vigore anche in Italia, e alla istituzione dell’Anno Europeo della lotta alla violenza contro le donne, iniziative che ben si integrano nel quadro internazionale delineato dall’ONU.

Quanto alla parola “femminicidio”, compare nel vocabolario Treccani on line ed è registrato anche nello Zingarelli, a partire dal 2010.

Si tratta del termine con il quale l’opinione pubblica italiana e i mass media hanno accolto e ribattezzato la legge L. 15.10.2013 n. 119, “Disposizioni urgenti per il contrasto della violenza di genere”, che ha introdotto una serie di misure, preventive e repressive, per combattere la violenza contro le donne per motivi di genere.

Il termine femminicidio, al posto di quello politicamente neutro di omicidio, è stato creato dalla letteratura criminologica e sociologica per dare un nome ad un fenomeno, altrimenti senza nome: la violenza estrema esercitata sistematicamente dall’uomo sulla donna, per il fatto di essere donna, cioè in ragione della sua appartenenza al genere femminile, per motivi di odio, gelosia, sadismo, disprezzo, passionali, o per un senso di possesso o di superiorità e di dominio sulla donna. Si allude, invero, alla condotta dell’uomo che “uccide la donna in quanto donna”. E’ un significato specifico che non include tutte le uccisioni di donne, per qualsiasi causa e in qualsiasi contesto.

La parola femminicidio, pur avendo acquistato una diffusione globale, è pressoché estranea alle fonti europee ed internazionali, le quali nel settore della prevenzione e repressione delle pratiche violente esercitate contro le donne hanno prevalentemente quale riferimento l’espressione “violenza di genere”.

Osservo, infine, che la violenza è intrinseca nel cervello rettile dell’essere umano. Questo, tuttavia, non significa che vi sia una legittimazione alla sua manifestazione.

Spesso la violenza appare strettamente connessa alla espressione della rabbia, la cui gestione è possibile attraverso precise pratiche e tecniche che vengono insegnate dai professionisti esperti in questo settore psicologico.

Nella violenza di genere, tuttavia, il focus va fissato sul genere.

 

 

Riferimenti

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